Nelle vicinanze del comune di Merano, oggi troviamo una stretta valle a cascata modellata nel tempo dall’azione del Torrente di Sinigo. Immaginiamo però di tornare indietro nel tempo, a quando la Terra era diversa da come la conosciamo oggi.
Un salto di 280 milioni di anni ci riporta al Permiano, un periodo caratterizzato dalla formazione del super-continente Pangea e dal predominio dei rettili, che si adattarono a una vasta gamma di habitat e aprirono la strada all’era dei dinosauri. Ci troviamo dinnanzi una zona dominata dal Supervulcano di Bolzano, uno dei più grandi complessi vulcanici che la Terra abbia mai creato, con una estensione verticale Nord-Sud di circa 90 chilometri e laterale Est-Ovest di circa 120 chilometri – da Trento fino a Merano.
Le sue eruzioni hanno lasciato un’impronta indelebile nel substrato geologico circostante. Grazie a loro si è sviluppato un bacino di centinaia di migliaia di chilometri quadrati, nel quale si sono formati nel tempo piccoli laghi, tra cui quello di Sinigo. Durante un periodo di calma nell’attività vulcanica, la vita ha potuto prosperare sulle sue sponde creando un ecosistema ricco, dove l’abbondanza d’acqua e la facilità nel reperire nutrimento ha generato una foresta lussureggiante, piena di un altrettanto fiorente fauna.
Ma come è stato possibile ricostruire nel dettaglio questo mondo antico? Qui entra in gioco il paleontologo, un vero e proprio detective della preistoria, che raccogliendo ogni indizio lasciato nel terreno lungo il corso delle ere geologiche, cerca di ricomporre il mosaico dell’antichità per dar nuova vita alle creature e agli scenari che un tempo dominavano la Terra.
Scavando nei sedimenti di Sinigo, un team di ricercatori contenente anche collaboratori del Museo di Scienze Naturali di Bolzano, ha riportato alla luce una vasta quantità di fossili, tra i quali per esempio ci sono delle radici dall’estensione esclusivamente laterale. Sappiamo quindi che le piante non necessitavano di scendere in profondità per reperire acqua. Inoltre, hanno scoperto tracce di bioturbazioni, piccole gallerie scavate da organismi nel terreno in ambienti appena sopra il livello dell’acqua. Questi ritrovamenti uniti al il tipo di sedimento fine tipico delle pianure alluvionali ed alla presenza di precipitazioni calcaree, indicano un’abbondante disponibilità di acqua dolce.
La grande quantità di piante fossili, tra le quali radici, frammenti legnosi, parti di foglie ci permettono di ricostruire la composizione della foresta permiana, dominata da gimnosperme, un gruppo di piante che producono semi, alte fino a 5 m. Possiamo supporre viste le condizioni che fossero presenti altre piante erbacee, che potrebbero aver composto l’ecosistema, ma che sono sfuggite alla conservazione.
La scoperta più rilevante tra quelle elencate è senz’altro il ritrovamento delle radici tabulari ad estensione puramente laterale e di frammenti lignei nelle rocce sedimentarie. Questi reperti con molta probabilità appartenevano infatti a conifere, alberi con foglie a forma di aghi o squame. Sino ad ora si pensava che le conifere nel Permiano crescessero in ambienti stagionalmente asciutti. Al contrario, grazie allo studio condotto dei ricercatori si è scoperto che si sono adattate a terreni ricchi di acqua, come lo erano quelli delle sponde del Lago di Sinigo. Questa scoperta ha significative implicazioni per la comprensione delle piante preistoriche e delle loro strategie di sopravvivenza.
L’ambiente prevalente dell’antica zona Euramericana era caratterizzato da un clima in mutamento, che passava da condizioni tropicali ad un progressivo inaridimento dell’intero continente. Questo cambiamento ha portato alla progressiva scomparsa dei laghi perenni e dei ghiacciai che avevano un tempo dominato il paesaggio pre-Permiano, noto come “clima icehouse”. Le analisi svolte dai ricercatori hanno indicano però che il lago sviluppatosi a Sinigo é di quasi 12 milioni di anni più giovane di tutti i laghi perenni scoperti nel resto del continente, l’ultimo testimone di un lago perenne in Euroamerica.
Qual è quindi il segreto del Lago di Sinigo? Senz’altro uno dei fattori determinanti è stato il clima locale semi umido, che si discostava da un clima più arido osservato altrove in Europa. Qui, la quantità di precipitazioni era sufficiente a mantenere il lago intatto, senza che si prosciugasse completamente. In aggiunta, la particolare composizione del terreno, caratterizzata da rocce vulcaniche poco permeabili, ha contribuito ad intrappolare l’acqua, creando un ambiente ideale per un bacino idrico.
Questo periodo florido per la vita nei pressi dell’odierna Sinigo ebbe però una fine catastrofica. Il vulcano causò un innalzamento del terreno, che culminò con un repentino sollevamento, causato dall’interazione tra le forze vulcaniche e tettoniche. Questo movimento scatenò un effetto domino di instabilità nel territorio, accelerato dalle piogge intense e dalle scosse sismiche, che portò ad un tragico susseguirsi di eventi.
Si svilupparono delle colate di detriti, che invasero ripetutamente le sponde del lago, annegando e devastando tutto sulla loro strada e seppellendo la foresta sotto strati di sedimento. Curiosamente, questa copertura divenne un velo protettivo per i resti vegetali, che sarebbero altrimenti svaniti nel corso del tempo. Il suolo si è trasformato in un archivio di storia biologica per milioni di anni, fino a quando le indagini dei ricercatori hanno finalmente rivelato i suoi segreti sepolti.
Il complesso del Supervulcano di Bolzano giocò un ruolo centrale nell’evoluzione del Lago di Sinigo e nella formazione dell’ecosistema che prosperò lungo le sue rive. Nel corso del tempo, il vulcano fu la spinta propulsiva che contribuì a creare ed a sostenere un ambiente rigoglioso ed un rifugio fertile per la vita. Questa stessa entità si trasformò poi in forza distruttiva, mettendo fine al bioma che si era generato, ma allo stesso tempo conservandone traccia per centinaia di milioni di anni.
Per saperne di più: S. Trümper et al. (2023), “A fossil forest from Italy reveals that wetland conifers thrived in early Permian peri-Tethyan Pangea”
Federico Minotti, tirocinante di paleontologia presso il Museo di Scienze Naturali di Bolzano e studente universitario magistrale di “Scienze Geologiche Applicate” dell’Università degli Studi di Torino